Quel malessere senza nome: quando non ci si riconosce più

Raccontare ciò che si sente, prima di spiegarlo

Ci sono giorni in cui ci si sveglia e la luce che entra dalla finestra sembra più debole, anche se fuori c’è il sole.
Gli occhi si aprono, ma il corpo resta fermo.
Le lenzuola sono un rifugio e una prigione allo stesso tempo: calde, protettive, ma anche pesanti, come se trattenessero non solo il corpo, ma ogni slancio.

Il pensiero di alzarsi non spaventa, non entusiasma: semplicemente non muove.
Ci si alza comunque, per forza d’abitudine.
Si fa colazione, si veste il corpo… ma non sempre si sente di “indossare” anche se stessi.

 

Una distanza silenziosa

Non sempre c’è una ragione chiara.
A volte questo malessere arriva lentamente, come un filo d’acqua che scava una roccia senza che ce ne si accorga.
Altre volte appare all’improvviso, senza avviso, come se avesse saltato ogni preambolo.

Puoi ridere con gli amici, partecipare a una festa, rispondere ai messaggi… e nello stesso momento percepire una distanza sottile tra te e quello che stai vivendo.
Come se le parole uscissero da sole, senza passare davvero da dentro.

Questa sensazione non è necessariamente tristezza.
È piuttosto uno scollamento: tra quello che fai e quello che senti, tra la tua immagine esterna e il tuo spazio interno.

 

I segnali che non fanno rumore

Spesso il malessere non urla. Parla piano, e se non lo si ascolta, si adatta a rimanere sullo sfondo.

Può essere:

  • un corpo che rimane contratto anche nei momenti di riposo;

  • una stanchezza che non si scioglie neppure dopo una notte di sonno;

  • una concentrazione che sfuma facilmente, come se la mente fosse avvolta da una nebbia leggera;

  • un’irrequietezza che spinge a riempire ogni spazio con rumori, schermi, persone, pur di non restare soli con se stessi;

  • o, al contrario, il desiderio di chiudersi in camera e lasciare fuori il mondo.

Non servono tutti questi segnali per accorgersene: basta notare che qualcosa dentro non si muove più in sintonia con l’esterno.

 

L’esperienza di Giulia

Giulia ha 22 anni. Studia all’università e lavora part-time in un bar.
Dall’esterno, sembra una ragazza piena di vita: ha amici, una relazione, buoni voti agli esami. Eppure, da mesi, sente come se tutto fosse rallentato.
Si alza, va a lezione, lavora, ride alle battute… ma è come se una parte di lei osservasse la scena da lontano.

Quando le chiedo “cosa provi?”, all’inizio risponde: “Niente”. Poi, piano, emergono immagini: una stanza con le tende tirate, un cielo grigio che resta uguale per giorni.
Non è un dolore forte, è piuttosto un’assenza.

In seduta, Giulia non ha cercato subito di “capire” o “risolvere”.
Ha imparato a restare un po’ con quella sensazione, a descriverla senza fretta, finché non ha iniziato a riconoscerne i contorni.
E da lì, lentamente, a sentire di nuovo il mondo intorno a sé.

 

Uno spazio per fermarsi

Quando arriva questo malessere, il rischio è di cercare risposte rapide: distrarsi, “darsi una mossa”, convincersi che “passerà da solo”. A volte funziona per un po’. Ma altre volte il vuoto resta, pronto a riaffiorare.

In seduta, il primo passo non è scacciarlo, ma dargli spazio. Non per coltivarlo, ma per ascoltarlo.
Si parte dal qui e ora: com’è questa sensazione? Che emozioni porta? Che parole o suoni la accompagnano?

Questo approccio non pretende di nominare subito ciò che si vive. Permette invece di incontrarlo così com’è, senza filtri.
E spesso, in questo incontro, emerge qualcosa di nuovo: un ricordo, un desiderio dimenticato, un bisogno non detto.

 

Se ti riconosci in queste righe

Forse non sai quando è iniziato. Forse ti sembra “troppo poco” per chiedere aiuto, perché “in fondo va tutto bene”. Ma il tuo sentire merita attenzione, anche quando non ha ancora un nome.

Ricevo in studio e online, offrendo uno spazio dove non è necessario avere già una spiegazione o un obiettivo chiaro.
Si parte da come stai ora, con la possibilità di esplorarlo senza fretta, fino a ritrovare un punto in cui riconoscerti di nuovo.

 

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