Una percorso che parte dall’esperienza: il metodo fenomenologico–ermeneutico

Quando una persona arriva in seduta, spesso porta con sé non solo sintomi o difficoltà, ma soprattutto una storia di sé che sente stretta, incompleta, a volte persino estranea.
Il mio lavoro non è quello di “correggere” questa storia dall’esterno, ma di creare uno spazio in cui il paziente possa riguardarla, raccontarla e trasformarla.

Il percorso diventa così un processo di ri-narrazione, in cui le parole, i pensieri e le immagini che emergono non sono semplici descrizioni, ma aperture verso nuove possibilità di essere.

Un esempio concreto: il diario di E.

E. è una giovane donna che seguo da alcuni mesi. Fin dai primi incontri ho colto in lei una grande intelligenza e sensibilità, qualità che le hanno permesso di entrare profondamente nel cuore del lavoro.
E. ha saputo osservare con lucidità le proprie dinamiche interiori, mettendole in parole in modo straordinariamente chiaro e coraggioso.

Durante il percorso, ha iniziato a tenere un diario. In queste pagine ha espresso con precisione la fatica di sentirsi intrappolata in un “personaggio” e, insieme, il desiderio di liberarsene.

Riporto integralmente un estratto delle sue parole, perché mostrano in modo autentico il cuore del lavoro che portiamo avanti insieme:

"Sto pensando più spesso alla mia incapacità di lasciarmi andare, di vivere la mia vita senza aver paura del giudizio altrui.
Alle volte mi sento come se dovessi "recitare" una parte. Non che io finga di essere ciò che non sono ma semplicemente che io debba rimanere fedele ad un personaggio che ha precise caratteristiche.
Come in un telefilm. Puntata dopo puntata impari a conoscerlo, ti affezioni a lui, e ti aspetti che si comporti e agisca in un preciso modo.
Ci resti male e ti senti tradito se poi vedi che non fa quello che ti aspetteresti che facesse. In qualche modo ti disaffezioni.

Forse è questo che temo. Ho creato un’idea di me sugli altri e ora sento che devo rimanere fedele a quell’idea o loro si disaffezioneranno.
Mi vogliono bene perché loro hanno conosciuto “questa versione di me”. Se “cambio”, mi vorranno ancora come figlia, amica, amante?
Mi costa però moltissima fatica essere sempre fedele a “me stessa”. Alle volte vorrei davvero lasciare andare tutto. Spogliarmi di tutte le strutture e architetture che compongono il mio io interiore e rimanere nuda. Da sola distesa su un prato circondata dalle montagne e sentirmi piccola e insignificante.
Insignificante nel senso di “priva di significato”. Essere. Solo corpo e mente, senza identità.
Mi sembra impossibile scindere chi sono dalla mia identità. Ma alle volte mi sento pesante, mi sento prevaricata da me stessa.
Mi chiedo se alla fine io non abbia sempre agito e fatto scelte in funzione di questa identità.
A scuola durante l’ora di lettorato la prof di inglese ci diceva “stick to the character” quando dovevamo recitare/leggere testi di letteratura.
E’ come se per tutta la mia vita mi fossi sempre ripetuta questo mantra. E’ come se pensassi che rimanendo coerente e fedele al mio personaggio, sarei risultata più autentica agli occhi degli altri."

Il significato di queste parole

Il diario di E. non è solo un racconto di sofferenza, ma anche la dimostrazione della sua straordinaria capacità di dare forma e voce al proprio vissuto.
Le sue parole rivelano il conflitto interiore tra l’immagine di sé che sente di dover mantenere e il desiderio di autenticità, ma mostrano anche un grande potenziale trasformativo: la possibilità di guardarsi in modo nuovo, con più libertà.

Il compito, in questo approccio, non è dare risposte dall’alto, ma accompagnare la persona a ri-significare la propria esperienza, fino a renderla più autentica e meno vincolata da copioni prestabiliti.

Rifigurare il vissuto

E. rappresenta bene il senso della rifigurazione: il paziente, grazie a un lavoro profondo e intelligente come il suo, riesce a riappropriarsi della propria storia e a trasformarla in una narrazione più vera e identitaria.
La scrittura, in questo percorso, diventa uno strumento prezioso non solo per descrivere il malessere, ma per aprire la strada a un’identità più libera.

Se ti riconosci

Molte persone che incontro mi raccontano la stessa sensazione: il peso di dover restare fedeli a un’immagine di sé, anche quando non corrisponde più a ciò che sentono.

Qui può essere lo spazio in cui, come è successo a E., non c’è più bisogno di “recitare”, ma si può iniziare a vivere con più autenticità.

Ricevo in studio e online, creando uno spazio sicuro dove i tuoi vissuti non sono giudicati, ma accolti e trasformati in nuove narrazioni di te stesso.

 

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